Ripensare il Risorgimento, presentazione G. Motta, Baroni in camicia rossa, Passigli, Firenze 2011


Il 27 maggio, ore 15.00, Aula Organi Collegiali, Sapienza, Palazzo Rettorato, Piano Terra si  terrà la presentazione del volume della prof.ssa Motta, Baroni in camicia rossa, Passigli, Firenze 2011.
Tra i relatori Piero Angela, Concita De Gregorio e Giuliano Montaldo. Nello stesso evento saranno presentati due reportage  sul concorso fotografico "Il Risorgimento a Roma" e sulla giornata relativa alla ricollocazione della lapide in memoria del Battaglione Universitario presso la Facoltà di Giurisprudenza
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Commemorazione dei 25 anni della scomparsa di Altiero Spinelli

con presentazione degli Atti del Comitato nazionale Altiero Spinelli

Programma provvisorio

Roma, lunedì 23 maggio 2011, ore 15.00-19.00

Parlamento Europeo, Ufficio d'Informazione in Italia
 “Sala delle Bandiere”
Via Quattro Novembre, 149

"Per un'Europa libera e unita"
Per un'Italia europea

Indirizzi di saluto:

Clara Albani, direttrice Ufficio Informaz. in Italia del Parlamento europeo
Silvio Battistotti, direttore Rappresentanza in Italia Commissione europea
Maurizio Fallace, direttore generale, Ministero Beni e Attività culturali
Renato Guarini, presidente Comitato Nazionale Altiero Spinelli
Virgilio Dastoli, presidente Consiglio Italiano del Movimento Europeo
Paolo Acunzo, vicesegretario Movimento federalista europeo

Lettura del messaggio del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

Ricordano Altiero Spinelli e il suo messaggio federalista:
Giovanni Maria Flick, Arrigo Levi*, Giorgio Ruffolo*

Presentano gli Atti del Comitato Spinelli: Francesco Gui e Piero Graglia

Intervengono: Gianni Bonvicini, Raimondo Cagiano de Azevedo, Giulio Ercolessi, Luigi Moccia, Edmondo Paolini, Paolo Ponzano, Tommaso Visone

Moderatore: Giampiero Gramaglia

Nel corso dell'incontro verranno mostrati filmati sulla figura di Spinelli e illustrate le pubblicazioni su "Ulisse" e il federalismo europeo edite negli ultimi anni, insieme alle traduzioni del Manifesto di Ventotene nelle lingue ufficiali dell'UE, pubblicate con il contributo della Regione Lazio.

L'evento verrà preceduto da una cerimonia di ricordo di Altiero Spinelli da tenersi presso la targa a lui dedicata, in via Uffici del Vicario, in Roma, con la partecipazione di personalità politiche e militanti federalisti.

Sono previste analoghe cerimonie presso il Bâtiment Spinelli del Parlamento europeo a Bruxelles, a cura dello Spinelli Group, e nel luogo della fondazione del Movimento federalista europeo (agosto 1943) a Milano. Alle celebrazioni verranno invitate anche le scuole e le istituzioni intitolate ad Altiero Spinelli

Segreteria organizzativa: Comitato nazionale “Altiero Spinelli”- “Sapienza” Università di Roma – Dipartimento di Storia, Culture, Religioni - tel. 06 49913407 / 49693234 - comitato@altierospinelli.it
CIME – P.zza della Libertà 13 -00192 Roma – tel. 0636001742 – segreteria@movimentoeuropeo.it

Reportage - Giornata di studio 11 maggio 2011. Studi sull'Europa Orientale. Un bilancio storiografico. Una nuova generazione di storici (1970-2010)













Il Bosforo raddoppia e Istanbul si moltiplica - Intervista al prof. Antonello Biagini

Il piano del governo turco per la capitale in vista del voto


La “pazza” idea di rivoluzionare Istanbul, scavando un secondo canale del Bosforo, si è arricchita mercoledì
di un altro, importante capitolo: costruire due nuove città satellite all’interno dell’area metropolitana, con tecniche a prova di terremoto. Il progetto è stato svelato in un intervento televisivo dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan con una tempistica elettorale perfetta. Cioè a un mese dalle elezioni politiche del 12 giugno, nelle quali l’ex sindaco della
città si gioca il suo terzo mandato. «Se consideriamo che un potenziale
terremoto arrecherebbe un danno di cento miliardi di lire turche – ha spiegato Erdogan –, si capisce che
con la costruzione di queste due città non ci saranno costi aggiuntivi per la nostra nazione».
Istanbul è una città che si stende per metà sul continente europeo, per l’altra su quello asiatico.
Le due sponde della metropoli sono divise dallo stretto del Bosforo, una lingua di mare che unisce il Mar
Nero al Mar di Marmara (e tramite questo al Mediterraneo). Sotto di essa si trova la linea di faglia nord
anatolica, una delle più attive zone sismiche del pianeta. Che espone Istanbul al serio pericolo di terremoti.
Un rischio reso ancora più grave dal fatto che negli ultimi cento anni la città è cresciuta a dismisura – ma
in maniera disordinata e disorganica. La sua popolazione è passata da uno a quindici
milioni di abitanti (altre stime parlano di venti milioni, ma la differenza di cifre dipende da quanta parte dell’area metropolitana si decide di includere nella definizione di Istanbul). Il progetto del Partito per lo
sviluppo e il progresso (Akp), attualmente al governo, si pone allora l’obiettivo di razionalizzare lo spazio cittadino.
Costruendo dentro l’area metropolitana due città completamente nuove, attrezzate a reggere l’urto sismico:
una nella parte europea, vicino al Mar Nero, dove il rischio terremoto è più basso; l’altra nella parte asiatica,
in una località non ancora precisata. Ciascuno di questi satelliti dovrebbe attirare (senza forzarli) un milione di
abitanti. Che rimarrebbero comunque sotto l’amministrazione del comune di Istanbul. L’inizio dei lavori, secondo quanto detto dallo stesso Erdogan, è fissato per il 2012. Ma la messa a punto del piano richiederà ulteriori studi e analisi. Perché a fianco alla costruzione delle nuove città dovrà essere ridisegnato l’intero piano
dei trasporti, delle strade, delle vie di comunicazione. Al momento è stato appaltato soltanto
il terzo ponte sul Bosforo (che sorgerà proprio in prossimità del Mar Nero), che è stato progettato per
alleggerire il massiccio volume di traffico che attualmente sostengono gli altri due. Il resto è ancora
tutto da definire. Il progetto delle due città, inoltre, si somma a quello della costruzione del secondo canale
del Bosforo. Che Erdogan ha annunciato con grande clamore meno di due settimane fa. Il piano prevede che si scavi un canale artificiale per collegare il Mar Nero al Mar di Marmara. E la sua funzione principale sarebbe quella di consentire alle numerosissime navi che oggi attraversano lo stretto del Bosforo (unico collegamento tra il Mar Nero e il Mediterraneo) di avere un percorso alternativo per dirottare il congestionato traffico navale. Il canale dovrebbe essere lungo 45 chilometri, profondo 25 metri e largo 150. La ratio del progetto è la tutela del patrimonio artistico della città, le cui ricchezze maggiori si trovano proprio lungo lo stretto, ma soprattutto alla fine, dove comincia la penisola su cui  sorgeva l’antica Costantinopoli. Le indiscrezioni sul progetto erano già circolate in passato. Soprattutto dopo l’incidente petrolifero dell’anno scorso nel Golfo del Messico. Quando molti osservatori cominciarono a domandarsi cosa ne sarebbe di Istanbul se un incidente petrolifero dovesse colpirla. Molto abilmente però Erdogan ha svelato il progetto solo a poco più di un mese di distanza dalle elezioni politiche. Accompagnandola con una previsione che fa molto gola all’elettorato: la creazione di 2 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Su Hurriyet Daily News Semih Idiz ha ricordato che
la vaga idea del progetto risale ai tempi dell’impero ottomano.
Poi essa venne ripresa più concretamente nel 1994 dall’ex primo ministro Bulent Ecevit, fondatore del Partito democratico di sinistra. Ma nonostante l’idea circolasse nell’aria, la stampa turca ha accolto la notizia
con grandissimo stupore. E l’aggettivo più usato per definirla è stato: «pazza». Anche se non sono pochi quelli
che ne difendono la follia. Spiegando che sarà utile alla città, alla sua crescita, alla sua salvaguardia. Mentre altri invece si domandano quanto costerà, quali prezzi ambientali bisognerà pagare, e se ne vale la pena.
Ma al di là dei dati tecnici sull’impatto ambientale, sulla fattibilità, sulla necessità di una rivoluzione urbanistica
di tale portata, c’è un dato tutto politico in questi progetti. È la determinazione con cui Erdogan sta cercando, non di vincere, ma di stravincere le elezioni politiche di giugno. Usando tutti gli strumenti a disposizione per stupire e calamitare l’attenzione dell’opinione pubblica e dell’elettorato.
La sua intenzione è mettere il partito islamico democratico che dirige al centro della storia della repubblica laica turca, per mutarne i connotati definitivamente. Dirottando l’esperimento kemalista (che si ispira cioè al padre della patria Mustafa Kemal Ataturk) dalla foga antireligiosa all’inclusione della religione nella sfera pubblica. E posizionando se stesso un gradino sotto il fondatore della repubblica, lo stesso Ataturk. Divenendo così, di fatto, il secondo politico più importante della storia della Turchia moderna.



LO STORICO ANTONELLO BIAGINI SPIEGA PERCHÉ ALLE ELEZIONI DI GIUGNO L’AKP DEL PRIMO MINISTRO SARÀ RICONFERMATO ALLA GUIDA DEL PAESE

Erdogan viaggia sicuro verso il tris, tra slancio europeo e neo-ottomanismo
 
L’Akp farà una grande scorpacciata di voti, il prossimo 12 giugno, giorn delle elezioni generali in Turchia. Secondo i sondaggisti il partito del prim ministro Recep Tayyip Erdogan di ispirazione islamica, sfonderà
la soglia del 50 per cento. Più ch esul responso (scontato) delle urne, si guarda quindi a come il
capo dell’Akp gestirà il suo terzo mandato. Europa, a questo proposito, ha chiesto a Antonello Biagini,
ordinario di Storia dell’Europa orientale alla Sapienza di Roma, di fare le carte all’Erdogan-ter.

Professore, quali sono gli ingredienti del successo dell’Akp?

Il partito di Erdogan ha saputo governare bene. Ha rimesso in sesto l’economia, innanzitutto, dopo la crisi del 2000-2001. È riuscito a mobilitare i ceti meno abbienti, portando la propria proposta nelle aree rurali del paese. Anche a livello normativo ci sono stati progressi importanti, con un ulteriore adeguamento delle leggi nazionali a quelle europee. Ma penso che la grande forza dell’Akp risieda nel fatto che i ranghi del partito sono formati da persone giovani e preparate, che sanno fare politica. I quadri dell’Akp si sentono ancora nel pieno del ciclo e hanno l’interesse a continuare a governare. Non c’è dubbio che lo faranno, grazie alla scorta di risultati positivi accumulati in questi anni. Il primo mandato di Erdogan è stato scandito, dopo il golpe del
1997, che mise fuorilegge le forze islamiche e portò lo stesso Erdogan in carcere, da una tattica “attendista”.
Durante il secondo, invece, l’Akp ha messo a segno punti importanti, di rottura con la tradizione kemalista, come l’elezione alla presidenza di Abdullah Gul.

Cosa dobbiamo aspettarci, adesso?

Chi sostiene che Erdogan voglia forzare, puntando a varare leggi ispirate ai precetti islamici suscettibili di snaturare l’assetto democratico della Turchia, è fuori strada. Da una parte perché l’Akp è una formazione
politica che, usando le categorie occidentali, potremmo definire di centro. Dall’altra c’è da tenere conto di come l’Akp punti fondamentalmente a una ridefinizione degli schemi politici, mirata all’aggiornamento
del sistema promosso a suo tempo da Ataturk, che fu calato dall’alto, anche con metodi sbrigativi. In sostanza Erdogan intende edulcorare alcuni dei dogmi laici di Ataturk, cercando peraltro il compromesso con  l’establishment repubblicano. Lo dimostra il fatto che, se è vero che c’è stata un’evoluzione che ha mitigato alcuni aspetti dell’impianto ideologico repubblicano – viene in mente la questione del velo – è altrettanto
vero che Erdogan rimane ancorato a una parte del bagaglio kemalista. Com’è vero che, sul fronte delle questioni curde e armena, ha alternato aperture a rigidità. Insomma, c’è un’oscillazione, ma l’Akp è
rimasto e penso intenda rimanere nel solco. Anche in politica estera è visibile questo approccio, con la Turchia che continua a tenere i piedi sulla staffa euro-atlantica, cercando però allo stesso tempo di accreditarsi come potenza regionale.
  
A proposito di politica estera, la dottrina del “neo-ottomanismo” è una trovata mediatica o ha riscontri effettivi?

La Turchia, sotto Erdogan, ha acquisito peso in Medio Oriente, Asia centrale e nel Mediterraneo. Ciò dipende, in una certa misura, proprio dalle caratteristiche storiche del modello kemalista, fondato su istituzioni democratiche e una forte autorità centrale. Basta pensare alla funzione di reggenza che i militari stanno svolgendo in Egitto. Naturalmente il modello turco è capace di evolversi e cambiare, come insegna  l’esperienza dell’Akp. Ma alcuni punti restano fermi e non penso proprio che Erdogan voglia discostarsene troppo. Anche perché rischierebbe di perdere il credito conquistato sul fronte internazionale. Il Chp, il partito kemalista, appare in pieno declino e non regge il passo dell’Akp. Perché? Ha perso l’aggancio con la società. La sua natura di partito delle élite urbane lo ha fatto trovare impreparato nel momento in cui, con l’Akp, l’Anatolia ha iniziato a contare politicamente e la tradizione ottomana è stata riscoperta. Ma i repubblicani erano usciti dal gioco già da prima. Il crollo del Muro di Berlino, infatti, ha determinato cambiamenti anche in Turchia. Venendo meno la logica della contrapposizione bipolare e quindi l’esigenza delle potenze occidentali di favorire la stabilità in Turchia puntando sui repubblicani, la cultura di cui l’Akp si fa interprete è emersa  progressivamente, diventando maggioritaria. I kemalisti non hanno letto queste variazioni, perdendo il treno della storia.

Crisi umanitarie, il Centro Studi “Geopolitica.info” intervista la prof.ssa Giovanna Motta

A tu per tu con Giovanna Motta: Modalità e responsabilità nella gestione delle crisi umanitarie
di Gabriele Vargiu
Un imponente movimento popolare mosso da rivendicazioni democratiche, economiche e politiche sta travolgendo dall’inizio del 2011 la quasi totalità dei paesi del mondo arabo. La rivoluzione del gelsomino in Tunisia, il collasso del regime di Hosni Mubarak in Egitto e, seppur con i dovuti distinguo, la guerra civile in Libia ne sono i risultati più evidenti. Conseguenza diretta dell’instabilità istituzionale generata da questi accadimenti è stata l’improvviso aumento dei flussi migratori tra le due sponde del Mediterraneo, un fenomeno che ha coinvolto direttamente l’Italia, con particolare evidenza sulle coste della Sicilia. A proposito dei problemi, delle modalità e delle responsabilità comunitarie nella gestione di questa crisi umanitaria, nonché della più ampia realtà dell’immigrazione e dell’impianto normativo del nostro Paese in materia, il centro studi Geopolitica.info ha discusso con Giovanna Motta, professore ordinario di Storia Economica e Sociale presso “Sapienza” Università di Roma ed esperta di storia del Mediterraneo e delle problematiche legate ai fenomeni migratori.
Al cospetto delle pressioni avvertite sui nostri confini come si sente di descrivere la reazione dello Stato italiano?
Senza dubbio la cosiddetta macchina dei soccorsi è stata attivata in ritardo. Gli sbarchi sull’isola di Lampedusa costituiscono un fenomeno che poteva essere ampiamente previsto e, di conseguenza, gestito con maggiore tempestività. Il progressivo infiammarsi delle proteste nel sud del mediterraneo avrebbe dovuto suggerire alle autorità italiane che nel caso, di fatto verificatosi, in cui i regimi politici locali fossero collassati si sarebbe potuto registrare un improvviso aumento dei flussi migratori.

A suo giudizio la questione dell'immigrazione, soprattutto quando assume tratti emergenziali come quella attuale, deve restare di stretta competenza degli Stati che ne subiscono direttamente le conseguenze o dovrebbe essere oggetto di un coordinamento nell'ambito dell'Unione Europea?

Certamente si rende sempre più necessario un coordinamento comunitario nella gestione di simili emergenze. Quantomeno nelle prime fasi della crisi l’Italia è stata indubbiamente lasciata sola da Bruxelles. Il problema, a mio avviso, va ricercato nella reticenza di molti membri dell’Unione ad elaborare una normativa univoca e condivisa in tema di migrazione, cui dovrebbe far seguito la definizione di un piano d’intervento congiunto per fronteggiare eventi eccezionali come quello cui stiamo assistendo in questi giorni.

Sotto un profilo più generale ritiene che gli stravolgimenti istituzionali della primavera araba possano alterare sensibilmente le dinamiche dei flussi migratori tra il continente africano e quello europeo, oppure si tratta di fenomeni connessi a variabili diverse quali, ad esempio, i cambiamenti climatici?
Gli eventi che si sono recentemente susseguiti nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo possono aver accentuato quantitativamente i flussi, ma, nel complesso, si tratta di un fenomeno ben più radicato nella storia che, a mio avviso, è destinato a conoscere una graduale ed inevitabile progressione. Sebbene da più parti, anche al di fuori dei nostri confini, giungano segnali di rigetto del modello di società multiculturale, non credo che si possa ipotizzare nel lungo termine un avvenire diverso: gli italiani, gli europei e, soprattutto, le rispettive classi politiche dovrebbero accettare questa prospettiva come un dato di fatto.

A questo riguardo, quali dovrebbero essere i compiti principali della politica e delle istituzioni statali?
La politica deve rivolgere la sua attenzione, anzitutto, sulla preparazione delle società di accoglienza al contatto con il diverso, smussando gli “angoli più duri” e prevenendo la formazione di quel sentimento di rigetto che, inevitabilmente, si presenta di fronte a situazioni di disagio mal gestite. Lampedusa ne costituisce un esempio lampante. In una prospettiva più generale, ad ogni modo, il rischio che si sviluppi nella società una percezione distorta della figura dell’immigrato, quale invasore o, peggio ancora, untore e portatore di malattie, è più forte in alcune categorie che in altre. Mi riferisco, soprattutto, agli anziani o a quelle fasce di popolazione economicamente più fragili che vedono nello straniero un possibile usurpatore dei posti di lavoro e della ricchezza del Paese. In realtà sappiamo che molto spesso gli immigrati finiscono per svolgere impieghi e mansioni che gli italiani si rifiutano di accettare e che il loro contributo alla crescita dell’economia nazionale non è indifferente.

Per quanto attiene invece all’aspetto normativo e alla necessità di regolamentare la gestione del flusso migratorio, partendo dalla Legge Martelli fino ad arrivare alle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, come si è evoluto l’approccio dei diversi governi italiani nei confronti di questo problema?
Gli interventi del legislatore nazionale in tema di immigrazione sono stati caratterizzati da logiche di fondo antitetiche, che hanno rispecchiato le diverse interpretazioni offerte dalle forze politiche a tale fenomeno. Non a caso nessuno di questi provvedimenti, fatta eccezione dell’iniziale legge Martelli, è stato approvato con un consenso bipartisan del Parlamento. La legge Turco-Napolitano trovava la sua ratio nella volontà di regolamentare una realtà, quella dei flussi migratori, reputata ineluttabile. Ne conseguiva che l’unica strada percorribile fosse quella della piena integrazione socio-culturale, attraverso la concessione del diritto di cittadinanza ai migranti che avessero risposto ad una serie di prerequisiti stabiliti nel testo normativo. La successiva legge Bossi-Fini, al contrario, ha interpretato il fenomeno dell’immigrazione come congiunturale e non strutturale: lo strumento per affrontarla è diventato così il permesso di soggiorno, caratterizzato dalla provvisorietà.



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Italia, Olanda, Europa. Il Risorgimento e le prospettive internazionali

Venerdì 13 maggio 2011, h. 15
Aula Organi Collegiali (Rettorato)
II giornata di studio a conclusione del ciclo di lezioni del dottorato di ricerca Storia d'Europa

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Studi sull'Europa Orientale. Un bilancio storiografico. Una nuova generazione di storici (1970-2010)

 Mercoledì 11 maggio 2011

ore 10, Aula Organi Collegiali (Rettorato)

Giornata di studio a conclusione del ciclo di lezioni del dottorato in Storia d'Europa (2010-2011)

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