Il Bosforo raddoppia e Istanbul si moltiplica - Intervista al prof. Antonello Biagini

Il piano del governo turco per la capitale in vista del voto


La “pazza” idea di rivoluzionare Istanbul, scavando un secondo canale del Bosforo, si è arricchita mercoledì
di un altro, importante capitolo: costruire due nuove città satellite all’interno dell’area metropolitana, con tecniche a prova di terremoto. Il progetto è stato svelato in un intervento televisivo dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan con una tempistica elettorale perfetta. Cioè a un mese dalle elezioni politiche del 12 giugno, nelle quali l’ex sindaco della
città si gioca il suo terzo mandato. «Se consideriamo che un potenziale
terremoto arrecherebbe un danno di cento miliardi di lire turche – ha spiegato Erdogan –, si capisce che
con la costruzione di queste due città non ci saranno costi aggiuntivi per la nostra nazione».
Istanbul è una città che si stende per metà sul continente europeo, per l’altra su quello asiatico.
Le due sponde della metropoli sono divise dallo stretto del Bosforo, una lingua di mare che unisce il Mar
Nero al Mar di Marmara (e tramite questo al Mediterraneo). Sotto di essa si trova la linea di faglia nord
anatolica, una delle più attive zone sismiche del pianeta. Che espone Istanbul al serio pericolo di terremoti.
Un rischio reso ancora più grave dal fatto che negli ultimi cento anni la città è cresciuta a dismisura – ma
in maniera disordinata e disorganica. La sua popolazione è passata da uno a quindici
milioni di abitanti (altre stime parlano di venti milioni, ma la differenza di cifre dipende da quanta parte dell’area metropolitana si decide di includere nella definizione di Istanbul). Il progetto del Partito per lo
sviluppo e il progresso (Akp), attualmente al governo, si pone allora l’obiettivo di razionalizzare lo spazio cittadino.
Costruendo dentro l’area metropolitana due città completamente nuove, attrezzate a reggere l’urto sismico:
una nella parte europea, vicino al Mar Nero, dove il rischio terremoto è più basso; l’altra nella parte asiatica,
in una località non ancora precisata. Ciascuno di questi satelliti dovrebbe attirare (senza forzarli) un milione di
abitanti. Che rimarrebbero comunque sotto l’amministrazione del comune di Istanbul. L’inizio dei lavori, secondo quanto detto dallo stesso Erdogan, è fissato per il 2012. Ma la messa a punto del piano richiederà ulteriori studi e analisi. Perché a fianco alla costruzione delle nuove città dovrà essere ridisegnato l’intero piano
dei trasporti, delle strade, delle vie di comunicazione. Al momento è stato appaltato soltanto
il terzo ponte sul Bosforo (che sorgerà proprio in prossimità del Mar Nero), che è stato progettato per
alleggerire il massiccio volume di traffico che attualmente sostengono gli altri due. Il resto è ancora
tutto da definire. Il progetto delle due città, inoltre, si somma a quello della costruzione del secondo canale
del Bosforo. Che Erdogan ha annunciato con grande clamore meno di due settimane fa. Il piano prevede che si scavi un canale artificiale per collegare il Mar Nero al Mar di Marmara. E la sua funzione principale sarebbe quella di consentire alle numerosissime navi che oggi attraversano lo stretto del Bosforo (unico collegamento tra il Mar Nero e il Mediterraneo) di avere un percorso alternativo per dirottare il congestionato traffico navale. Il canale dovrebbe essere lungo 45 chilometri, profondo 25 metri e largo 150. La ratio del progetto è la tutela del patrimonio artistico della città, le cui ricchezze maggiori si trovano proprio lungo lo stretto, ma soprattutto alla fine, dove comincia la penisola su cui  sorgeva l’antica Costantinopoli. Le indiscrezioni sul progetto erano già circolate in passato. Soprattutto dopo l’incidente petrolifero dell’anno scorso nel Golfo del Messico. Quando molti osservatori cominciarono a domandarsi cosa ne sarebbe di Istanbul se un incidente petrolifero dovesse colpirla. Molto abilmente però Erdogan ha svelato il progetto solo a poco più di un mese di distanza dalle elezioni politiche. Accompagnandola con una previsione che fa molto gola all’elettorato: la creazione di 2 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Su Hurriyet Daily News Semih Idiz ha ricordato che
la vaga idea del progetto risale ai tempi dell’impero ottomano.
Poi essa venne ripresa più concretamente nel 1994 dall’ex primo ministro Bulent Ecevit, fondatore del Partito democratico di sinistra. Ma nonostante l’idea circolasse nell’aria, la stampa turca ha accolto la notizia
con grandissimo stupore. E l’aggettivo più usato per definirla è stato: «pazza». Anche se non sono pochi quelli
che ne difendono la follia. Spiegando che sarà utile alla città, alla sua crescita, alla sua salvaguardia. Mentre altri invece si domandano quanto costerà, quali prezzi ambientali bisognerà pagare, e se ne vale la pena.
Ma al di là dei dati tecnici sull’impatto ambientale, sulla fattibilità, sulla necessità di una rivoluzione urbanistica
di tale portata, c’è un dato tutto politico in questi progetti. È la determinazione con cui Erdogan sta cercando, non di vincere, ma di stravincere le elezioni politiche di giugno. Usando tutti gli strumenti a disposizione per stupire e calamitare l’attenzione dell’opinione pubblica e dell’elettorato.
La sua intenzione è mettere il partito islamico democratico che dirige al centro della storia della repubblica laica turca, per mutarne i connotati definitivamente. Dirottando l’esperimento kemalista (che si ispira cioè al padre della patria Mustafa Kemal Ataturk) dalla foga antireligiosa all’inclusione della religione nella sfera pubblica. E posizionando se stesso un gradino sotto il fondatore della repubblica, lo stesso Ataturk. Divenendo così, di fatto, il secondo politico più importante della storia della Turchia moderna.



LO STORICO ANTONELLO BIAGINI SPIEGA PERCHÉ ALLE ELEZIONI DI GIUGNO L’AKP DEL PRIMO MINISTRO SARÀ RICONFERMATO ALLA GUIDA DEL PAESE

Erdogan viaggia sicuro verso il tris, tra slancio europeo e neo-ottomanismo
 
L’Akp farà una grande scorpacciata di voti, il prossimo 12 giugno, giorn delle elezioni generali in Turchia. Secondo i sondaggisti il partito del prim ministro Recep Tayyip Erdogan di ispirazione islamica, sfonderà
la soglia del 50 per cento. Più ch esul responso (scontato) delle urne, si guarda quindi a come il
capo dell’Akp gestirà il suo terzo mandato. Europa, a questo proposito, ha chiesto a Antonello Biagini,
ordinario di Storia dell’Europa orientale alla Sapienza di Roma, di fare le carte all’Erdogan-ter.

Professore, quali sono gli ingredienti del successo dell’Akp?

Il partito di Erdogan ha saputo governare bene. Ha rimesso in sesto l’economia, innanzitutto, dopo la crisi del 2000-2001. È riuscito a mobilitare i ceti meno abbienti, portando la propria proposta nelle aree rurali del paese. Anche a livello normativo ci sono stati progressi importanti, con un ulteriore adeguamento delle leggi nazionali a quelle europee. Ma penso che la grande forza dell’Akp risieda nel fatto che i ranghi del partito sono formati da persone giovani e preparate, che sanno fare politica. I quadri dell’Akp si sentono ancora nel pieno del ciclo e hanno l’interesse a continuare a governare. Non c’è dubbio che lo faranno, grazie alla scorta di risultati positivi accumulati in questi anni. Il primo mandato di Erdogan è stato scandito, dopo il golpe del
1997, che mise fuorilegge le forze islamiche e portò lo stesso Erdogan in carcere, da una tattica “attendista”.
Durante il secondo, invece, l’Akp ha messo a segno punti importanti, di rottura con la tradizione kemalista, come l’elezione alla presidenza di Abdullah Gul.

Cosa dobbiamo aspettarci, adesso?

Chi sostiene che Erdogan voglia forzare, puntando a varare leggi ispirate ai precetti islamici suscettibili di snaturare l’assetto democratico della Turchia, è fuori strada. Da una parte perché l’Akp è una formazione
politica che, usando le categorie occidentali, potremmo definire di centro. Dall’altra c’è da tenere conto di come l’Akp punti fondamentalmente a una ridefinizione degli schemi politici, mirata all’aggiornamento
del sistema promosso a suo tempo da Ataturk, che fu calato dall’alto, anche con metodi sbrigativi. In sostanza Erdogan intende edulcorare alcuni dei dogmi laici di Ataturk, cercando peraltro il compromesso con  l’establishment repubblicano. Lo dimostra il fatto che, se è vero che c’è stata un’evoluzione che ha mitigato alcuni aspetti dell’impianto ideologico repubblicano – viene in mente la questione del velo – è altrettanto
vero che Erdogan rimane ancorato a una parte del bagaglio kemalista. Com’è vero che, sul fronte delle questioni curde e armena, ha alternato aperture a rigidità. Insomma, c’è un’oscillazione, ma l’Akp è
rimasto e penso intenda rimanere nel solco. Anche in politica estera è visibile questo approccio, con la Turchia che continua a tenere i piedi sulla staffa euro-atlantica, cercando però allo stesso tempo di accreditarsi come potenza regionale.
  
A proposito di politica estera, la dottrina del “neo-ottomanismo” è una trovata mediatica o ha riscontri effettivi?

La Turchia, sotto Erdogan, ha acquisito peso in Medio Oriente, Asia centrale e nel Mediterraneo. Ciò dipende, in una certa misura, proprio dalle caratteristiche storiche del modello kemalista, fondato su istituzioni democratiche e una forte autorità centrale. Basta pensare alla funzione di reggenza che i militari stanno svolgendo in Egitto. Naturalmente il modello turco è capace di evolversi e cambiare, come insegna  l’esperienza dell’Akp. Ma alcuni punti restano fermi e non penso proprio che Erdogan voglia discostarsene troppo. Anche perché rischierebbe di perdere il credito conquistato sul fronte internazionale. Il Chp, il partito kemalista, appare in pieno declino e non regge il passo dell’Akp. Perché? Ha perso l’aggancio con la società. La sua natura di partito delle élite urbane lo ha fatto trovare impreparato nel momento in cui, con l’Akp, l’Anatolia ha iniziato a contare politicamente e la tradizione ottomana è stata riscoperta. Ma i repubblicani erano usciti dal gioco già da prima. Il crollo del Muro di Berlino, infatti, ha determinato cambiamenti anche in Turchia. Venendo meno la logica della contrapposizione bipolare e quindi l’esigenza delle potenze occidentali di favorire la stabilità in Turchia puntando sui repubblicani, la cultura di cui l’Akp si fa interprete è emersa  progressivamente, diventando maggioritaria. I kemalisti non hanno letto queste variazioni, perdendo il treno della storia.